Francesco Ferrucci
cod.: 007 - I Libri
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"Francesco Ferrucci" - primo capitolo: La casa demolita
“È un bel cane” disse l’uomo che era entrato in casa per primo, seguito da altri uomini che portavano picconi e mazze. Io guardai con inquietudine il mio padrone e vidi che era preoccupato come me. Mi preparai a difenderci e non feci caso alla lode che avevo ricevuto. Allora era una lode che ricevevo da tutti, benché preferissi quella che più s’addice a un bracco, e cioè che ero forte e bravo nelle imprese di caccia. Ma da qualche tempo il mio padrone, che si chiama Alberigo de’ Cecchetti ed era allora giovane e coraggioso, non era più allegro e spensierato come prima e non uscivamo quasi più per la caccia: si parlava d’un francese, principe Filiberto d’Orange, che s’avvicinava a Firenze alla testa d’un esercito di soldati spagnoli per togliere la libertà alla Repubblica. I fiorentini si preparavano a difendere la loro libertà, e anche nella nostra casa, che rimaneva a mezza costa sul bel colle di San Miniato, sulla riva sinistra dell’Arno, s’adunavano i giovani e parlavano della prossima guerra. “È veramente un bel cane, come si chiama?”, ripeté l’uomo che comandava i portatori di picconi e mazze, forse per guadagnarsi la mia simpatia, mentre continuavo a brontolare e a mostrare i denti, una cosa che facevo raramente perché mi piaceva mostrarmi educato e civile. “Si chiama Marco” rispose il mio padrone, e aggiunse: “Marco è un nome di libertà”. Voleva dire che dal Convento di San Marco in Firenze continuava ad arrivare l’eco della predicazione di Fra Girolamo Savonarola, che durante la sua vita invitava i cittadini a difendere la libertà, che è uno dei più grandi doni di Dio. “Mi piace il suo mantello di pelo raso e lucido, bianco e marrone”. Io avevo smesso di ringhiare perché mi parve che fra il mio padrone e quell’uomo ci fosse qualche intesa, ma non capivo ancora se i nuovi venuti erano amici o nemici. “Mettetevi a sedere” disse messer Alberigo, rivolto all’uomo e agli operai, ma nessuno accettò l’invito. “Sono molto dispiacente”, disse il capo degli operai, “ma abbiamo l’ordine di demolire questa casa: lo comanda messer Michelangelo Buonarroti e lo esige la difesa della Repubblica”. Michelangelo era un cittadino di Firenze famoso in tutto il mondo per le sue sculture e le sue pitture, fra le più belle di tutti i tempi, e per la sua architettura, come diceva chi aveva visto le sue chiese e i suoi palazzi, e il disegno della Cupola di San Pietro, che doveva sorgere in Roma. Al comando della Repubblica c’era il Gonfaloniere Francesco Carducci e il Consiglio degli Ottanta, e tutti d’accordo chiamarono il grande architetto e gli dissero: “La Repubblica è in pericolo: lascia da parte le statue e le pitture e mettiti a disegnare le fortezze e a farle costruire. Ti nominiamo fra i Nove capi della Milizia e governatore e provveditore generale delle fortificazioni”. Io conoscevo già Michelangelo perché incontrandolo il mio padrone lo additava agli amici: “Quello è il grande Michelangelo, la più bella gloria di Firenze nel mondo, dopo che Dante e Giotto sono morti”. Era un bell’uomo di cinquantacinque anni, un po’ curvo e pensoso, con una bella barba grigia e gli occhi penetranti. Io allora andavo a fargli festa ma appena mi guardava mi sentivo soggiogato dall’intelligenza del suo sguardo e m’allontanavo. Michelangelo, benché già nell’età matura, accettò l’incarico, cessò di scolpire statue e dipingere affreschi dai bei colori sui muri bianchi, e si mise a disegnare e costruire fortezze, e tutto il popolo lo riveriva con commozione. Ma io non capivo perché un uomo così grande e generoso avesse dato l’ordine di distruggere la nostra casa, la nostra bella casa che era quasi una villa e non scompariva al paragone delle ville stesse, che abbellivano i magnifici colli fiorentini. Guardavo con ansia il mio padrone e aspettavo un suo ordine per dare a quegli uomini la risposta che meritavano, se avevano bugiardamente detto d’esser mandati da quel genio che non poteva fare del male a nessuno. Ma messer Alberigo mi disse con voce ferma: “Dobbiamo andarcene. Questa casa potrebbe diventare utile al nemico come posto d’osservazione. Tutte le case, tutte le ville e tutte le chiese dei dintorni di Firenze, che potrebbero essere utili all’invasore, verranno demolite. Sarà fatto il vuoto intorno alla città e alle fortificazioni perché la difesa sia più agevole”. Aveva il pianto in gola, ma le labbra non davano un tremito. Fuori erano pronti i carri con altri uomini per il trasporto della mobilia: incominciò subito lo sgombero e già gli uomini del piccone davano i primi colpi. II sole stava per tramontare e si vide l’ombra lunga d’un uomo che scendeva da San Miniato. Al suo sopraggiungere tutti lo salutarono con riverenza ed egli si fermò.
Domandò del padrone di casa, mise una mano sulla spalla di messer Alberigo e disse: “Il prezzo che pagate alla difesa di Firenze è grande, ma è ancora poco in confronto a chi dà la vita: vi auguro, se occorrerà, di non rifiutare nemmeno quest’offerta. Fece una carezza anche a me e s’allontanò curvo e pensoso. Egli aveva pagato rinunciando alla sua arte, che è ben più d’una casa, e offriva la vita, dopo avere offerto alla Repubblica il denaro che possedeva: era Michelangelo Buonarroti.
Domandò del padrone di casa, mise una mano sulla spalla di messer Alberigo e disse: “Il prezzo che pagate alla difesa di Firenze è grande, ma è ancora poco in confronto a chi dà la vita: vi auguro, se occorrerà, di non rifiutare nemmeno quest’offerta. Fece una carezza anche a me e s’allontanò curvo e pensoso. Egli aveva pagato rinunciando alla sua arte, che è ben più d’una casa, e offriva la vita, dopo avere offerto alla Repubblica il denaro che possedeva: era Michelangelo Buonarroti.
"L'Eroe di Gavinana" - Primo capitolo - Un ragazzo e un cavallo
Marco correva sotto la pioggia. Era un bel ragazzo di quindici anni, coi riccioli biondi che gli scendevano sulle spalle. La mamma veneziana gli aveva regalato gli occhi celesti e il babbo fiorentino l’agilità della mente e delle membra. Venezia e Firenze, le due fiere repubbliche erano alleate e s’aiutavano a progredire nei commerci e nelle arti. Marco le amava e avrebbe voluto vederle unite, come sua madre e suo padre, ma ora correva sotto la spinta d’un amore più prossimo e palpitante: correva recando sotto il braccio una soffice coperta di lana. Scese il greto dell’Arno e s’immerse nell’acqua fino alle ginocchia. Eravamo ai primi di settembre dell’anno 1529 e quella prima pioggia autunnale non poteva ancora impedire il passaggio dell’Arno a guado. Risalì la sponda settentrionale e sempre correndo s’immerse nella campagna, prese il dorso d’una collina e raggiunse trafelato uno stazzo dove un giovane e splendido cavallo arabo pascolava: “Kherim!” La bella bestia alzò la testa e nitrì. La pioggia rendeva lucido il manto nero, che terminava con la balzana bianca alle zampe, da sotto il ginocchio allo zoccolo. Gli occhi scuri e sapienti esprimevano una gioia stupita, come che dicessero: “Perché sei venuto, buon amico?”. Marco gli distese la coperta sul dorso, prese la cavezza e insieme ridiscesero la collina, il cavallo difeso dalla pioggia e il ragazzo a testa nuda, senza curarsi dei rivoli d’acqua che gli appannavano la vista. Il piovasco, che era venuto giù da Vallombrosa, proseguì a ovest, verso Firenze, e a Rosano tornò presto a splendere il sole, che era ancora alto sui colli dell’Incontro e di San Miniato. Marco aveva condotto Kherim al riparo sotto la loggia del castello e andò a scioglierlo per ripetere il giuoco d’ogni sera. Senza curarsi dell’erba bagnata, si distese sul piazzale e il cavallo, con dolci musate, lo faceva ruzzolare sul terreno, finché non riuscì a scoprire una borsa che il ragazzo nascondeva nelle vesti: Scoperta la borsa, Kherim s’arrestò ed emise un leggero nitrito, che indicava soddisfazione e attesa. Marco aprì la borsa, piena di zucchero. Aveva avuto Kherim in dono dal babbo, che l’aveva comperato in un villaggio arabo, ai piedi del Monte Kherim e l’aveva battezzato col nome di quella cima, la più alta della regione. Il babbo apparteneva alla Corporazione fiorentina dell’Arte della Lana e andava in oriente con le veloci flottiglie Veneziane a scambiar le ricchezze favolose di quei paesi con la ricchezza dell’ingegno italiano. Da uno di quei viaggi era tornato con Kherim, uno dei più belli esemplari dei cavalli del deserto, che sono i più belli del mondo, e Marco ne aveva fatto l’amico inseparabile. Kherim divorò lo zucchero con grande ghiottoneria e, come se l’alimento gli avesse messo nelle vene un irresistibile bisogno di moto, cominciò a nitrire e scalpitare intorno al ragazzo. Marco guardò il cielo: il giorno moriva dolcemente e restava il tempo per una cavalcata sulla sponda erbosa dell’Arno, risalendone il corso verso Figline. Con un salto fu in groppa al cavallo, che si lanciò al trotto con un nitrito di gioia. I luoghi incantevoli davano un gioioso impulso alla corsa, ma i lavoratori che ritornavano dai campi coi loro arnesi avevano quella sera, un aspetto grave, che la sola stanchezza della fatica non poteva giustificare. Marco non se ne sarebbe accorto, se un vecchio terrazzano non gli avesse fatto cenno di fermarsi: “Torna a casa, Marco. Non ci sono buone notizie da Figline e potresti fare qualche brutto incontro”. Marco strinse le labbra e piegando la testa piegò la guida a Kherim: ripresero, con la tristezza che era seguita alla gioia come la notte seguiva alla luce del giorno, la via di Rosano.
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